"Orange Is the New Black"
Dati principali
• Genere: Dramedy carceraria
• Creatore: Jenji Kohan
• Piattaforma: Netflix
• Ispirazione: Libro Orange Is the New Black: My Year in a Women's Prison di Piper Kerman
• Debutto: 11 luglio 2013
• Finale: 26 luglio 2019
• Stagioni: 7
• Episodi totali: 91
Premessa
E così ho finito di guardare anche questa serie TV, ambientata in un penitenziario femminile. Il mondo sospeso e favolistico di Chiamatemi Anna mi aveva scosso emotivamente per la profonda immedesimazione nel personaggio e per affinità molto forti, ma qui il trauma è di tutt’altra natura… Mi affascina analizzare la vita comunitaria nei “sistemi chiusi” e le dinamiche sociali che scaturiscono dalla segregazione coatta, ma molte scene erano forse troppo "forti" per me.... certi legami “particolari” tra le detenute sono rappresentati in modo così esplicito e dettagliato che, volgarità a parte, privano l’anatomia femminile di ogni grazia. È un’epoca in cui, per normalizzare l’omosessualità, la si inserisce ovunque, spesso in maniera eccessiva e quasi “violenta”… Detenute che entrano etero e diventano lesbiche in carcere, come se fosse un inevitabile rito di passaggio. Fame di affetto? Forse. Ma la facilità con cui avviene questo cambiamento mi è parsa poco convincente, insieme a molte altre ingenuità. Eppure, eccomi qui, in lacrime. C’è un tipo di lutto che non riguarda la perdita di una persona cara, ma la fine di un viaggio emotivo, la chiusura di una storia che ci ha accompagnato per anni. Quando una serie come Orange Is the New Black termina, lascia un vuoto, perché i suoi personaggi sono entrati nelle nostre vite, ci hanno fatto ridere, indignare, commuovere. Sono diventati quasi familiari, con i loro difetti e le loro speranze spezzate, e dire loro addio non è semplice.
Recensione
Il carcere di Litchfield, con le sue dinamiche brutali e i suoi momenti di umanità, non è solo uno sfondo narrativo, ma un microcosmo che offre uno specchio della società, dei suoi fallimenti e delle sue ingiustizie e dell’orribile corruzione delle istituzioni. Le dinamiche sociali si esasperano fino a diventare specchio deformato e amplificato della società esterna.
Ogni sistema di reclusione, che sia una prigione, un ospedale psichiatrico o un campo di prigionia, genera strutture di potere, gerarchie informali, economie sotterranee e meccanismi di sopravvivenza che ridisegnano le regole della convivenza umana. “Orange Is the New Black” si inserisce in questa tradizione di rappresentazione dei mondi chiusi, ma con una cifra stilistica che oscilla tra il dramma e la satira, la denuncia sociale e la narrazione seriale spettacolare.
La serie, ispirata come è noto al memoir di Piper Kerman, segue la vicenda di Piper Chapman, una donna della classe media bianca che finisce in carcere per un reato legato al traffico di droga commesso anni prima. Il suo ingresso a Litchfield è il pretesto per esplorare la quotidianità delle detenute, le divisioni etniche, il contrabbando, le alleanze e i conflitti che scandiscono la vita dietro le sbarre. Con il passare delle stagioni, il racconto si amplia, abbandonando la prospettiva privilegiata di Piper (per fortuna) per dare voce a un mosaico di personaggi di diversa estrazione sociale e culturale, facendo emergere storie di marginalità, ingiustizia e resistenza.
Uno degli elementi distintivi di “Orange Is the New Black” è la crudezza con cui affronta le relazioni all’interno del carcere: le difficoltà delle detenute nell’adattarsi alla reclusione, i rapporti di potere tra prigioniere e guardie, le lotte per la sopravvivenza in un ambiente ostile e il peso del passato che ognuna di loro porta con sé. Le scene di violenza, abuso e sesso sono esplicite non solo per un effetto shock, certo, ma anche per sottolineare la mancanza di privacy e il modo in cui il desiderio e il potere si intrecciano in un contesto chiuso.
La serie si concede diverse libertà narrative, in particolare riguardo al grado di autonomia e libertà di movimento delle detenute, spesso più simile a quello di un campus universitario che a una prigione di minima sicurezza. L’idea di una sorveglianza così blanda, con guardie facilmente manipolabili e spazi comuni gestiti quasi interamente dalle prigioniere, indebolisce in parte la credibilità del racconto.
Al centro della narrazione ci sono i legami tra le detenute, che si articolano in amicizie, amori, rivalità e alleanze strategiche. Le divisioni etniche sono uno dei cardini dell'equilibrio interno: le bianche, le afroamericane, le latine e le altre minoranze formano gruppi distinti, spesso in conflitto tra loro. Il carcere diventa un microcosmo in cui le tensioni razziali si riaccendono e le gerarchie si impongono con modalità che riproducono, in modo estremizzato, le divisioni sociali del mondo esterno. Accanto ai conflitti, però, emergono anche storie di solidarietà e connessioni profonde, che restituiscono un’immagine complessa e sfaccettata della condizione umana in un ambiente di reclusione.
Un altro aspetto centrale della serie, e qui devo ammettere catturato con molto realismo, è l’economia informale del carcere: il contrabbando di droga, telefoni, cosmetici e generi di conforto crea un mercato parallelo che sostituisce quello ufficiale, mentre le detenute trovano modi ingegnosi per aggirare le regole e migliorare le proprie condizioni di vita. Ma al di là degli aspetti più pittoreschi, Orange Is the New Black non dimentica di mostrare la disperazione che aleggia tra le mura di Litchfield: le speranze frustrate, le condanne ingiuste, l'abbandono da parte delle famiglie, la brutalità delle guardie e la corruzione del sistema penitenziario. E sì, non mancano scene molto commuoventi e tristi.
Le licenze narrative e gli elementi poco realistici sono ciò che ho apprezzato di meno: guardie che diventano direttori del carcere, detenute che palano tra loro in un furgoncino prima di un processo, passandosi informazioni e, ripeto, tante altre ingenuità. Anche la durata delle pene e le modalità con cui alcune protagoniste vengono incarcerate risultano a volte semplificate per favorire la narrazione. Tutte cose che insieme all’eccesso di scene hot tra detenute hanno compromesso in parte la credibilità della narrazione, rendendo alcune situazioni più simili a espedienti drammatici che a un ritratto autentico della vita in carcere. Se da un lato questi elementi servono a mantenere alta la tensione e l’intrattenimento, dall’altro rischiano, a mio avviso, di distorcere la percezione del sistema penitenziario, trasformandolo in un teatro di relazioni e colpi di scena più che in un ambiente rigidamente regolamentato e spesso privo di reali vie di fuga, fisiche o emotive. Detenute che entrano etero e diventano lesbiche in carcere come se fosse un rito di passaggio. Fame di affetto? Può darsi. Ma non mi ha convinto troppo la facilità con cui si possa passare dall’altra sponda.
Ammetto che la serie riesce comunque a bilanciare denuncia sociale e intrattenimento. Il grande merito è quello che riesce a mettere in luce le storture di un sistema che punisce senza riabilitare. I personaggi sfaccettati e la narrazione, che mescola ironia e tragedia, sono oggettivamente un ottimo modo di sensibilizzare il pubblico su tematiche come la brutalità del sistema carcerario, la recidiva e le difficoltà del reinserimento sociale.
Consigliatissimo, ovviamente a pubblico adulto per le scene di droga, sesse, abusi e violenza in generale.